Il fascino discreto del Giappone

Porcellane, sete, ventagli, xilografie, paesaggi da fiaba: un mondo tutto da scoprire, esotico e lontano, che nel volgere di pochi anni, intorno alla metà del XIX secolo e fino a Novecento inoltrato, stregò gli artisti, e non solo, dell’Europa intera. Il giapponismo (in francese, japonisme), per usare il termine coniato a Parigi dal critico Philippe Burty nel 1872, influenzò profondamente il gusto e l’occhio di molti pittori, grafici, scultori, ammaliati dalla magia del Sol Levante, con le sue trasparenze, il sentimento enigmatico della natura, i formati verticali, l’assenza di ombre.

Due mostre, una a Rovigo (Giapponsimo. Venti d’Oriente nell’arte europea, 1850-1915, Palazzo Roverella, 28 settembre 2019-26 gennaio 2020), l’altra a Milano (Impressioni d’Oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone, Mudec, 1 ottobre 2019-2 febbraio 2020), ripercorrono alcuni importanti momenti di questa pagina di raffinato eclettismo che si irradiò in ogni movimento, dal Liberty ai Nabis, dall’Impressionismo al Simbolismo, tra Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Boemia e Italia.

Se tra gli artisti più celebri colpiti dalla “nippomania” si annoverano Toulouse-Lautrec, Gauguin, Van Gogh, e naturalmente Monet, non si possono dimenticare gli italiani, tra gli altri Federico Zandomeneghi, anch’egli affascinato dall’incanto dell’Oriente – come si può notare, nei suoi quadri, da certi oggetti e particolari, per esempio le carte da parati – e rappresentato al Mudec dal Ritratto di Diego Martelli con berretto rosso. O Giuseppe De Nittis, che della vague giapponista fu un vero e proprio cultore, tra l’altro con i suoi ventagli e i suoi piccoli studi del Vesuvio, in cui il vulcano, colto da diverse prospettive durante l’eruzione del 1872, ci fa pensare, se non altro per il soggetto, al Monte Fuji, la montagna sacra, simbolo del Giappone.